La fotografia ad azione sociale

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Dicembre 2020


«Una metà del mondo ignora come vive l’altra metà». Questa frase, così drammaticamente attuale, risale al 1890 ed è del fotoreporter danese Jacob Riis (1849-1914), autore del libro:”How the Other Half Lives”, considerato un precursore nell’utilizzo della fotografia come tecnica di ricerca sociale. Mediante articoli e fotografie, egli ha mostrato le misere condizioni di vita nei bassifondi newyorkesi ed ha evidenziato le crescenti disparità sociali nella Grande Mela alla fine del XIX secolo. Un altro grande pioniere della fotografia sociale è Lewis Hine (1874-1940), sociologo e fotografo statunitense che, ai primi del Novecento, ha sentito la necessità di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema dell’immigrazione in America e ha documentato il lavoro minorile nelle fabbriche americane per supportare la NCLC (la Commissione nazionale dei comitati dei lavoratori), di cui era il fotografo, nell’abolizione di questa pratica.
I fotografi sociali scelgono di mettere la loro visione al servizio di chi è vittima della sofferenza e sono in tanti quelli che dal XIX secolo ad oggi hanno continuato a mostrare la tragicità della condizione umana.
Scrive la fotografa francese Gisèle Freund: «Per la prima volta la fotografia diventa un’arma nella lotta per il miglioramento delle condizioni di vita degli strati poveri della società».
Quella sociale è una fotografia che vuole documentare e portare alla luce situazioni e problematiche che rappresentano le parti oscure della società civile, a volte nascoste e altre sotto gli occhi di tutti. Una fotografia di denuncia, il cui intento è quello di risvegliare le coscienze, sensibilizzare e far riflettere la collettività su tematiche sociali di varia natura, quali povertà, degrado, sfruttamento, ingiustizie e diseguaglianze sociali etc., con l’auspicio di realizzare un processo di cambiamento a favore dei più deboli e dei fragili.
Due grandi fotografe sociali sono state Dorothea Lange (1895-1965) e Mary Ellen Mark (1940-2015). La prima, americana, negli anni ’30 ha realizzato moltissimi reportage rurali sulla condizione di immigrati, braccianti e operai, fotografando gli ultimi, i più umili e dimenticati, gli sfruttati e gli emarginati. La sua fotografia più nota forse è “Migrant Mother” del 1936, diventata una vera e propria icona del ‘900 e simbolo della Grande Depressione. La Lange era in viaggio dalla California all’Arizona per documentare le migrazioni interne causate dalla Crisi, quando si fermò nel campo dei raccoglitori di piselli di Nipomo dove si trovavano più di duemila braccianti agricoli ai limiti della sussistenza. Fu qui che incontrò Florence Thompson, una madre che si riparava con i suoi sette figli sotto una tenda logora. Pochi giorni dopo la sua pubblicazione incominciarono a farsi sentire gli effetti sulle coscienze della “Migrant Mother” e al campo arrivarono generi alimentari, vestiti, dottori e medicinali.
M. E. Mark è stata una vera leggenda della fotografia, sensibile a tutto quello che viveva ai margini e fuori dagli schemi. Ha cercato con le sue immagini di “dare voce alle persone che avevano meno opportunità di parlare per sé” e per molti anni ha fotografato i movimenti di liberazione delle donne e per i diritti degli omosessuali, ha affrontato tematiche come la tossicodipendenza, la prostituzione, la solitudine e la malattia mentale. Il suo lavoro più conosciuto è sicuramente “Streetwise”, un saggio fotografico sui bambini scappati di casa che vivevano nelle strade di Seattle, pubblicato su Life nel 1983 e che ha ispirato il film omonimo candidato all’Oscar. Sceglie come protagonisti un gruppo di giovani senzatetto e tormentati che cercavano di sopravvivere facendo i magnaccia, le prostitute, i mendicanti e i piccoli spacciatori. Tra questi Erin Blackwell Charles, meglio nota come Tiny, alla cui dura esistenza dedica uno straordinario reportage, durato dal 1983 al 2014, in cui segue la ragazzina tredicenne per oltre trent’anni attraverso le diverse tappe della sua vita.
Tra i contemporanei attenti alle tematiche del sociale e al rapporto tra fotografia e antropologia visiva troviamo il fotografo professionista romano Dario Coletti (1959), maestro e amico, che dalla fine degli anni ’80 collabora con testate giornalistiche, istituzioni e organizzazioni umanitarie italiane e internazionali. La sua è sempre stata una fotografia impegnata, di documentazione, e strumento di informazione sulle problematiche della società contemporanea. Una fotografia militante, realizzata con l’obiettivo di testimoniare a favore delle vittime e il cui scopo è contribuire alla risoluzione delle principali problematiche sociali attraverso un segno che possa agire sull’evoluzione della mentalità umana e civile. Quindi la fotografia sociale come vocazione e impegno. Tra le sue tante pubblicazioni vi è un grande progetto realizzato tra il 2008 e il 2011 nel Sulcis iglesiente: “Okeanos & Hades. Chronicles from Sardinia”, un viaggio alla scoperta del dualismo tra mare e entroterra, tra coste e interno, tra miniere e tonnare. Il tema principale nei suoi lavori, per sua stessa definizione, è sempre l’uomo “come un elemento dinamico a cavallo tra grandezza e miseria, tra aspirazioni universali e spirito di sopravvivenza”.

1. Lewis Hine, Bambini al lavoro in una vetreria. Indiana, 1908
2. Dorothea Lange, Migrant mother, 1936
3. Mary Ellen Mark, Streetwise, 1983
4. Dario Coletti, Okeanos & Hades, 2011