Febbraio 2021
Tempo fa una mia amica mi ha chiesto: “Simo, quest’anno vorrei che mi facessi un ritratto interiore. Mi fotografi come mi sento in questo momento della mia vita?”.
L’ho trovata una sfida spiazzante e stimolante.
Se in un ritratto fotografico l’aspetto narrativo diventa ancora più importante dell’estetica dell’immagine, entriamo nel terreno della fotografia introspettiva, in cui il volto può essere rivelatore del mondo interiore dalla persona fotografata. Questo è possibile quando la foto non è la mera ripresa di chi si trova di fronte all’obiettivo, ma il frutto dello scambio di emozioni ed esperienze tra due persone, il fotografo e il fotografato. Attraverso uno sguardo esterno e reciproco, si può instaurare un processo di identificazione utile per chi cerca una rilettura di sé attraverso la rappresentazione di un altro. Cosa tutt’altro che semplice, anche perché spesso capita che le persone interessate a uno shooting non si conoscano, si vedono in quell’occasione per la prima volta, e non ci sia neanche molto tempo per l’incontro. Poiché un estraneo è presente nello spazio di entrambi, la prima criticità diventa sicuramente la distanza con l’altro da sé, emotiva e fisica. Il fotografo deve quindi imparare a riconoscere, gestire e rispettare lo “spazio dell’altro”, senza essere invadente, per entrare nella sua intimità in punta di piedi.
“Come il bimbo si vede (o non si vede) rispecchiato nel volto materno, così noi continuiamo a vederci attraverso gli occhi degli altri, o meglio attraverso l’immagine che immaginiamo che gli altri abbiano o debbano avere di noi.” (Ferrari, 2007).
Quando svolgo una sessione fotografica, non mi basta controllare gli aspetti tecnici del set, flash, softbox, ombrelli, fondali, cavalletti, pannelli riflettori o diffusori, superfici riflettenti, etc. Seppur fondamentali per la sua buona riuscita, per me è basilare entrare in relazione con chi ho di fronte, per cogliere la sua essenza e passare dal piano dell’ “io” e del “tu” a quello del “noi”. Come fotografa mi chiedo: cosa scelgo di portare in superficie o nascondere di lei o di lui nell’immagine che decido di scattare? Per narrare una persona attraverso il suo ritratto, e non solo rappresentarla, è importante cercare e aspettare il momento in cui cadono le maschere condivise. So per esperienza che, quando fotografo e fotografato riescono ad abbassare le difese, possono incontrarsi e vivere un contatto più profondo e autentico. È in questi casi che con la mia fotocamera sono capace di andare oltre le apparenze, per fare emergere l’identità della persona ritratta o cogliere lati del suo carattere.
Al tempo stesso, il ritratto di qualcuno può fungere da specchio per me che lo sto fotografando e questo può portarmi a proiettare qualcosa di me in lui (o lei). Ancora, in un gioco d’inversione di ruoli, è chi è fotografato che osserva me che lo ritraggo ed io divento a mia volta oggetto di osservazione, curiosità e domande da parte sua. Ti osservo e mi osservo: cosa vedo in te di me?
Vorrei concludere citando solo alcuni dei tanti grandi fotografi che si sono specializzati nel ritratto (non sono in ordine di importanza), per ciascuno dei quali ho scelto una foto che mi sembrava rappresentativa del loro stile.
Il primo è Richard Avedon, fotografo e ritrattista statunitense, che ha affermato: “…spesso penso che vengono da me a farsi fotografare come andrebbero da un medico o da un indovino per scoprire come sono, io devo conquistarli, altrimenti non ho niente da fotografare…”. Per lui ho trovato una famosa foto che ha fatto a Marylin Monroe in cui è colta in un’espressione che mostra tutta la sua disarmante fragilità.
Un’altra grande ritrattista che amo è stata Tina Modotti, fotografa di origini italiane, militante femminista e comunista nel Messico degli anni Venti, e per presentarla ho utilizzato un intenso ritratto che ha fatto a Frida Khalo in un momento di intimità sdraiata nel suo letto.
Non posso poi non citare l’affermata fotografa statunitense Annie Leibovitz, di cui segnalo l’ultima fotografia che ha scattato a John Lennon (insieme a Yoko Ono), la mattina dell’8 dicembre 1980, qualche ora prima che il cantante venisse ucciso.
E da ultimo, ma tutt’altro che ultimo, Arnold Newman, che è considerato uno dei più grandi ritrattisti della seconda metà del ‘900 e maestro del ritratto ambientato, autore dell’ eccezionale e inquietante ritratto fatto all’industriale tedesco ed ex nazista Alfried Krupp in una delle sue fabbriche.